Libano, padre Borg: gente allo stremo, la solidarietà è la nostra salvezza

03/08/2021

Ad un anno dall’esplosione al porto di Beirut, il Paese è ancora in una profonda crisi sociale, economica e sanitaria. Il quadro politico resta problematico e incerto e la ripresa non decolla: si tentano vie di fuga, aumentano i suicidi. Ne parla il gesuita Oliver Borg che non manca di lodare la solidarietà del popolo e di incoraggiare l’impegno della Chiesa

Antonella Palermo – Città del Vaticano

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-08/libano-catastrofe-parenti-estero.html

In considerazione della situazione in Libano, il Consiglio Ue ha adottato un quadro per misure restrittive mirate che prevede la possibilità di imporre sanzioni nei confronti di persone ed entità responsabili di compromettere la democrazia o lo Stato di diritto nel Paese. Le sanzioni prevedono il divieto di viaggio nell’Unione europea e il congelamento dei beni. Intanto, il nuovo premier incaricato, Najib Mikati, ha promesso di formare un nuovo governo nel più breve tempo possibile in una nazione che vive in pieno crollo economico. Secondo un’analisi condotta da Save the Children, l’ammontare mancante per acquistare beni di prima necessità è aumentato del 550% nell’ultimo anno.

Beirut un anno dopo: ancora aperte le ferite dell’esplosione

Abbiamo incontrato a Roma, dove si trova in questo periodo estivo, il gesuita Oliver Borg, che ha vissuto per undici anni a Beirut, fino al 2015. E’ stato assistente spirituale al seminario interdiocesano, docente di teologia spirituale all’università St. Joseph, ha operato con i bambini di strada. E’ in costante contatto con gli amici lasciati là e sente sempre una stretta al cuore quando gli parlano di ‘situazione catastrofica’. 

Ascolta l’intervista a padre Oliver Borg SJ

Il religioso ammette di non essere molto ottimista per il futuro politico del Libano ma “i miracoli succedono”, dice. “Speriamo che tutti si rendano conto che non si può andare avanti così”.

Le attese per la ricostruzione del porto di Beirut 

Il 4 agosto di un anno fa, la violenta esplosione al porto della città – causata da un’enorme quantità di nitrato di ammonio immagazzinato in modo non sicuro per anni – in cui sono morte oltre 200 persone e ne sono rimaste ferite più di 7000. Migliaia di case e negozi distrutti. “I nostri scolastici e il Provinciale si sono salvati per miracolo”, ricorda il gesuita. Tutte le finestre, sotto cui c’erano le scrivanie, si sono ridotte in mille pezzi e loro sarebbero tutti morti – dice il padre – se non fossero stati impegnati in una conferenza altrove”. Intanto quattro giorni fa, il presidente libanese Michel Aoun ha dichiarato al Procuratore nazionale libanese di essere pronto a rilasciare una dichiarazione giurata sulla vicenda, qualora la deposizione fosse necessaria. “Purtroppo la lentezza delle indagini è un dato di fatto”. A Beirut il clima è talmente teso per questa impasse che si temono manifestazioni di piazza in vista del 4 agosto, dichiarato lutto nazionale: il popolo chiede di far luce su quanto avvenuto e che le indagini riprendano con determinazione e trasparenza.

Mancano benzina ed elettricità

Padre Oliver riferisce le ultime informazioni che giungono dal Paese: “Si passano ore in coda per riempire il serbatoio di benzina e non sempre è possibile, perché la benzina manca. Anche quando c’è – spiega – invece di essere venduta in Libano, viene venduta attraverso il mercato nero alla Siria, che poi la rivende al Libano a un prezzo più caro. Non c’è gasolio e il gasolio serve perché l’elettricità erogata dallo Stato è garantita solo per poche ore, dai tempi della guerra. La gente ne ha bisogno, ci si affida ai generatori. La disponibilità di luce elettrica, nel centro della capitale, può arrivare a cinque ore al giorno, nei quartieri più poveri si arriva solo a cinque minuti al giorno”.

Cibo razionato, sopravvive chi ha parenti all’estero

Il gesuita sottolinea che i salari sono rimasti gli stessi mentre la lira si è svalutata enormemente. “Lo stipendio di un impiegato semplice è di 50 dollari al mese. Non si riesce a fare nulla con questi pochi soldi. Un’amica mi diceva che 100mila lire libanesi non bastano per una giornata”. Come si fa a sopravvivere? “Ci riescono solo quelli che hanno parenti all’estero e che fanno arrivare loro degli aiuti economici. Devo dire che molti hanno parenti fuori. Ma quanto a lungo potrà durare questo?”, è la domanda centrale. “La gente non riesce più a comprare né carne, né pesce, né latte. Anche i poveri che vivevano di fagioli non riescono più a comprarli perché costano 20mila lire al chilo”, racconta. “Un padre di famiglia mi diceva che al negozio, quando pure si trova il latte, gliene danno solo una confezione. Tutto è razionato”. 

Quotidiani i casi di suicidio

La condizione in cui versano gli ospedali è al limite del collasso, aggravato dalla pandemia. “Si accettano solo le urgenze. Non hanno medicinali e la mancanza di luce elettrica incide sul funzionamento dei macchinari”. Padre Borg mette in luce un fenomeno inquietante sempre più diffuso: “Sono quotidiani i casi di suicidio. L’altro ieri un padre di famiglia disperato è andato in ospedale e davanti ai medici si è sparato un colpo di pistola nel petto”. 

A rischio le scuole, fiore all’occhiello del Paese

Il dramma che vivono le scuole è sconcertante. L’educazione, fiore all’occhiello del Paese, è allo sbando. Padre Oliver ci spiega che la maggior parte e le migliori scuole ed università libanesi sono private. Ce ne sono almeno una decina che appartengono a congregazioni e ordini religiosi. “Gli insegnanti e i direttori si chiedono come poter fare per andare avanti: aumentare le rate è impossibile perché i genitori non le pagherebbero. Stanno pensando di continuare le lezioni online per risparmiare un poco le spese. Ma per quanto tempo si potrà continuare? Un religioso mi diceva che rischiano di chiudere e, se chiudono, vuol dire che la situazione è molto, molto seria e sarebbe tempo che la gente si facesse carico delle proprie responsabilità se si è arrivati fino a questo punto”.

Tutti cercano una via di fuga dal Paese

Da ‘Svizzera del Medio Oriente’ – come è spesso e a lungo stato definito – ora il Paese dei cedri “è sul lastrico”, denuncia amaramente il religioso. E’ proverbiale la laboriosità e generosità del popolo libanese “ma se non si hanno i mezzi come si fa? I migliori medici stanno scappando ma non perché lo desiderano. Non vorrebbero andare via, ma devono”, spiega ancora il sacerdote. Gli esempi di persone che fino a qualche tempo fa appartenevano alla borghesia e che ora a stento riescono a rimanere sulla soglia di povertà sono innumerevoli: “Un’amica ha perso il marito cinquantenne per il Covid. Con due figli – racconta Oliver – si è dovuta licenziare per avere la pensione del marito. Ma i figli vogliono andare via. I libanesi vorrebbero il Libano di una volta ma non possono, date le circostanze gravi in cui sono costretti a vivere”.

La necessità di un profondo esame di coscienza

I ricordi e i racconti del gesuita si mescolano a considerazioni che rimandano a geopolitiche dal retrogusto amarissimo: “Ci sono sempre altri poteri manipolatori; tutti hanno una ‘longa manus’ su quell’area del mondo. E’ triste”, ammette, e poi, da prete, invoca: “Se la classe politica non fa un buon esame di coscienza e non attua una vera e radicale conversione, c’è poca speranza per il Paese”. Evidenzia una contraddizione lampante che irrita non poco la gente: “Mentre si sta soffrendo la fame, il 10% della popolazione continua a riempire i ristoranti stellanti, i pub e i beach club dove si paga anche mille dollari al mese per esserne socio. Questo fa rabbia a chi vive di sacrifici”. Non esiste più la classe media. “Un avvocato di spicco mi dice: siamo tutti poveri. Non riusciamo ad andare più avanti perché la gente non paga”. 

Gli sforzi della Chiesa per aiutare la gente

La Chiesa in Libano si sforza di essere un motore di solidarietà. Se non fosse per questa solidarietà tenuta attiva da ong e parrocchie sul territorio sarebbe ancora peggio. E’ accaduto anche nella tragica esplosione al porto di Beirut. Padre Borg ricorda come tutti, allora, si siano messi attorno alla loro chiesa, distrutta e appena riaperta, per continuare a preparare i pasti per i vecchi e i poveri della zona. Ancora oggi succede. “I libanesi sono sempre stati molto forti in questo. Nel 2006 la gente del sud era bombardata e tutti hanno aperto le scuole per accogliere chi arrivava da là. Anche se ha niente, il popolo libanese è abituato a offrire questo niente”. Intanto comunità di amici del Libano pregano nel mondo per la risurrezione nel Paese. “Questo vuol dire tanto – si rallegra – perché almeno i libanesi sanno di non essere soli. Il fatto che il Papa abbia espresso il desiderio di andare in visita là dà molta speranza e la gente lo aspetta con ansia e con gioia. Sanno che il Pastore non abbandona il gregge, e lui è un vero Pastore che sa parlare ai cuori”.