Condividere il dolore di Dio

ANTONIO BELLINGRERI

La vocazione carmelitana di Edith Stein

«Portare amore all’Amore»

Scrive Edith Stein in una lettera del 26 dicembre 1932: «Esiste una vocazione a soffrire con Cristo e a collaborare con Lui nella sua opera redentrice. Essendo uniti al Signore siamo membra del Corpo mistico di Cristo. Cristo continua a vivere e a soffrire nelle sue membra. E le sofferenze sopportate in unione con il Signore diventano la Sua Passione, incorporate alla sua opera redentrice e quindi feconde. È l’idea fondamentale di tutti gli istituti religiosi, e in modo particolare del Carmelo (…)» (Cito l’edizione critica di tutte le opere di Edith Stein con la sigla ESGA, seguita dal numero del volume; qui ESGA 2, 254).

In poche parole ella compendia la sua scelta di vita, fatta dopo essere stata «afferrata» da Cristo e dopo essersi convertita a Dio a Cristo alla Chiesa al Carmelo, quasi tutto fosse un’unica realtà. Riflettiamo insieme su questa speciale forma di sofferenza cui lei si riferisce, che è volontaria, ma non è scelta per se stessa, è scelta bensì per condividere quanto ha vissuto Gesù: per «far compagnia» a Gesù, in particolare nella notte angosciosa del Gethsemani e nel giorno della morte sul Golgota; è quanto ella poi, altre volte, ha definito con l’espressione «portare amore all’Amore» («Liebe um Liebe», come ha scritto), condividendo la Sua gioia e il Suo dolore.

Nata sotto il segno del Kippur

Una svolta cruciale, che la indusse ad approfondire l’intuizione vivissima dell’ora della conversione, accade per lei nei primi mesi del 1933, dopo aver appreso di crudeltà efferate che i nazisti iniziavo a commettere in varie città della Germania contro gli ebrei: «(…) l’impressione subita quella sera fu particolarmente viva: ebbi l’intuizione che Dio di nuovo gravava la mano sul suo popolo e compresi che il destino di questo popolo era anche il mio» (ESGA 1, 491). Lei stessa, pochi giorno dopo, subì in prima persona una grave angheria, fu privata dell’insegnamento universitario; così si espresse in quel frangente nello stesso testo: «Provai un senso di sollievo al pensiero di esser colpita anch’io dalla sorte comune del mio popolo».

Si fece sempre più chiaro quanto lei aveva avvertito, in una sorta di premonizione, già tanto tempo prima: era nata nel giorno di Kippur, il giorno della Grande espiazione e del Grande perdono e sentì di essere sempre «sotto il segno di Kippur», anche dopo la sua conversione cristiana. Ora però, nel tragico 1933, ella lo intende «nella luce della figura di Cristo». Cerchiamo di capire: rivolgendosi con amore ardente a Cristo, ella comprende anche che il Padre è il «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe»: lo stesso Dio che ha istituito la prima alleanza col suo popolo, il popolo ebraico; ma ora, con Cristo, i sacrifici degli animali e le prescrizioni rituali diventano culto spirituale. Diventa dunque sempre più chiaro l’essenziale: Gesù Crocifisso è il Giorno dell’espiazione in persona e l’espiazione è il senso della preghiera per gli altri, la sua potenza permette di aiutare tutti efficacemente; in poche parole, ora, con Cristo, ogni Suo discepolo è chiamato ad essere responsabile di tutti, facendosi carico del destino terreno ed eterno di tutte le persone che ci appartengono.

Il primo incontro con la Croce

Ella riconosce che già prima della conversione era accaduto il primo incontro con la Croce, con la sofferenza redenta, divenuta principio di vita; così ricorda quel giorno, verso la fine del 1917, quando fa visita ad Anne Reinach, una cara amica che da pochi giorni aveva perduto nella Grande guerra Adolf, il marito tanto amato; non la trova sprofondata nell’angoscia, ma raggiunte, piena di luce e di forza: «Fu il mio primo incontro con la Croce, la mia esperienza della forza divina che dalla Croce emana e si comunica a quelli che l’abbracciano. Per la prima volta mi fu dato di contemplare in tutta la sua luminosa realtà la Chiesa nata dalla passione salvifica di Cristo, nella sua vittoria sul popolo della morte. Fu quello il momento in cui la mia incredulità crollò (…)» (Teresa Renata dello Spirito Santo). Ma solo con la conversione accade l’evento inatteso e determinante, l’incontro personale con il Signore, il Vivente, il Crocifisso Risorto alla cui presenza Lei sta e sceglie ora di restare per sempre; èla scoperta dellavocazione carmelitana, la vocazione di Elia e di Maria: «Stare davanti a Dio per tutti».

Emerge con evidenza qui l’altro punto nodale, che tutto tiene insieme: l’intelligenza del Mistero del Cuore di Cristo orante le apre l’intelligenza del Mistero di Israele, popolo dell’Alleanza definito dalla relazione con Dio. Israele – per Edith, «il mio popolo» – è l’eletto, segnato per sempre da questa elezione; è l’evento che prefigura la rivelazione perfetta del Figlio, misteriosa ma reale manifestazione visibile dell’Invisibile Padre, che si sostanzia della relazione col Padre. Si comprende di conseguenza perché il Carmelo: se la Chiesa di Cristo è la nuova Alleanza del popolo di Dio, che vive una sostanziale continuità con il Mistero del «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe»; lei scopre che il Carmelo è il solo ordine dell’Occidente che «tiene unito l’Antico col Nuovo Testamento» (C. Rastoin). Ora, dentro questo orizzonte di comprensione, «la spiritualità della Croce determina il suo rapporto col il popolo ebraico e motiva la sua solidarietà con esso – una solidarietà sino alla morte» (G. Rapp).

«La risorsa che sussiste nella mancanza di ogni risorsa»

Ma, concretamente, che fare per il suo popolo? che fare per gli ebrei? e che fare per la Germania?

Nell’aprile del 1933 scrive: «Nelle ultime settimane avevo continuamente pensato alla possibilità di fare qualcosa per la questione degli ebrei (…), chiedere al Santo Padre una enciclica a proposito (ad esempio). Sebbene un tal passo fosse conforme alla mia natura, sentivo però che non era l’essenziale, ma in che cosa consistesse questo essenziale non lo sapevo ancora». Il Signore però glielo fece capire subito, quella sera stessa di aprile, in chiesa, durante l’Ora santa: «Mi rivolsi al Salvatore e dissi che sapevo bene come fosse la sua croce che veniva posta in quel momento sulle spalle del popolo ebraico: la maggior parte di essi non lo comprendeva, ma quelli che avevano la grazia di intenderlo, avrebbero dovuto accettarla con pienezza di volontà a nome di tutti. Mi sentivo pronta, e domandavo al Signore che mi facesse vedere come dovevo farlo. Terminata l’Ora santa, ebbi l’intima certezza di essere stata esaudita, sebbene quella sera non sapessi ancora in che cosa doveva consistere la croce che mi veniva imposta» (ESGA 1, 348).

In realtà non era semplice scoprire cosa fare, quale azione e quale iniziativa mettere in atto, ogni progetto ideato svelava solo la sua impotenza, appariva destinato all’inefficacia. Fu allora che, finalmente, comprese l’essenziale: «Preghiera e sacrificio sono mezzi più efficaci delle nostre parole, anzi – non ne dubito – sono assolutamente necessari (…). Ogni volta che sperimento l’insufficienza dell’apostolato diretto, sento più viva l’esigenza dell’olocausto di me stessa» (ESGA 18, 304). Ecco dunque l’essenziale, «la risorsa che sussiste ancora nella mancanza di ogni risorsa» (Gertrud von Le Fort).

La Shoah come Storia sacra

Edith Stein interpreta da quel momento la Shoah come storia sacra, una storia che conduce misteriosamente ma realmente alla salvezza delle nazioni. Ella la vive scrivendo: «Il destino del mio popolo è il mio destino»; e dice di sé di aver parte all’ultimo duello coi negatori dell’Alleanza, «il duello con l’Anticristo». Tutto quanto però resta un segreto nel profondo del suo cuore, non ne rivela il mistero a nessuno; solo nel suo testamento spirituale, redatto in data 9 giugno 1939, si legge: «Fin d’ora accetto la morte che il buon Dio ha disposto per me, in totale adesione alla sua volontà. Prego il Signore di voler accettare la mia vita e la mia morte a suo onore e gloria, in particolare per la santificazione e il perfezionamento del nostro santo Ordine, soprattutto del Carmelo di Colonia e di Echt; in espiazione del popolo ebraico (…), per la salvezza della Germania e per la pace del mondo; infine, per i miei parenti vivi e defunti e per tutti coloro che Dio mi ha dato: che nessuno di loro vada perduto» (ESGA 1, 374-375). Quest’ultimo desiderio, «che nessuno di loro vada perduto», è il desiderio stesso espresso da Gesù prima della sua passione.

Erano i pensieri che custodiva già da qualche tempo nel suo cuore; pochi giorni prima della stesura del testamento, aveva scritto: «Sono certa che il Signore ha accettato la mia vita per tutti. Penso sempre alla regina Ester che è stata scelta tra il suo popolo proprio per intercedere davanti al re per il suo popolo. Io sono una Ester assai povera e impotente, ma il re che mi ha eletta è infinitamente grande e misericordioso» (ESGA 3, 333). E ancor prima, il 26 marzo 1939, aveva chiesto ed ottenuto dalla sua superiora il permesso di offrirsi «vittima espiatrice per la vera pace, affinché il dominio dell’Anticristo crolli, possibilmente senza una guerra mondiale (…) So di essere un nulla, ma Gesù lo vuole, ed Egli un giorno chiamerà a questo molti altri» (ESGA 3, 373). Le è chiaro che questa è la «beatitudine più grande»: «(…) diventare collaboratori di Dio nella conversione e nella conquista delle anime, giacché in quest’opera risplende di nuovo fulgore l’azione di Dio (…). Ma il passaggio obbligato per arrivare a farne parte è la croce. E il predicare la croce sarebbe cosa vana, se non fosse in realtà espressione di una vita vissuta in unione col Crocifisso» (ESGA 18, 236). Scegliere dunque e amare il dolore di Dio per il mondo.

Il mistero della Croce gloriosa

Ormai è pronta, spiritualmente, per Auschwitz, per la discesa nell’abisso del male: il luogo in cui si vuole mettere in atto la negazione estrema della elezione di Israele; il luogo dell’Anticristo, della disfazione, la negazione radicale della creazione; il luogo dell’annientamento di tanti uomini e di tante donne, «regni carnali in cui vive la parola di Dio» (E. Levinas). Ma nell’abisso del male, c’è un solo segno di speranza e di vita, la Croce di Cristo abbracciata e baciata, sposata da quanti come lei scelgono di condividere l’abbondono estremo di Dio.

Negli scritti dell’ultimo decennio di vita ne ha parlato, l’ha chiamata «Scienza della croce» nella sua ultima opera rimasta incompiuta; è il destino del servo sofferente che porta il peccato del mondo, il destino di «Israele della Shoah» e l’«ora» di Gesù abbandonato, che vive sino in fondo l’esperienza del silenzio di Dio, «dolore unico di Dio per il mondo da Lui creato» (M. Buber). Ma solo con la sua vita e con la sua morte, Edith Stein ha reso testimonianza al mistero della Croce gloriosa avviandosi ad essa come verso un evento nuziale; è il mistero dell’unità profonda della Croce, stato di abbandono estremo inerente alla humana conditio, e della Gloria, rivelazione del «Dio-divino» come Amore Misericordioso.

Vi è pervenuta con l’adesione incondizionata alla chiamata a condividere con Gesù crocifisso e risorto Il Giorno dell’espiazione. È l’aspetto più carico di mistero: Santa Teresa Benedetta della Croce sceglie di portare amore all’Amore che Gesù-Trinità ha portato ad ogni uomo, vegliando con Lui nella prova estrema; non è la scelta del sacrificio o del dolore per il dolore, è «amore per l’Amore». Così, diventando la Sposa di Cristo, lietamente ne ha condiviso la Croce, l’abbandono perfetto in cui Egli, assumendo lo smarrimento e la deiezione di ogni uomo, li muta di segno: quanto rende la Croce perfetta manifestazione del vero volto di Dio Misericordia, il volto della Gloria.